martin bradley

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Articoli vari

COLIN WILSON

Martin Bradley, uno tra i pittori di maggior fama e successo del nostro tempo, è da oltre 30 anni anche un mio caro amico. Quando ci incontrammo in Londra, eravamo entrambi esordienti e squattrinati. Ricordo che già in quel tempo Martin era profondamente immerso nello studio dell’arte e della calligrafia della Cina e del Giappone e, la prima volta che lo incontrai, nel 1953, le pareti della sua stanza erano tappezzate da esempi di quel genere. Martin aveva l’aspetto di un giovane alto, magro e dai capelli neri che parlava con l’entusiasmo di uno studente e dipingeva con un’ossessione che mi faceva pensare a Charles Strickland nel racconto di Somerset Maughan Moon and Sixpence. Comunicava una travolgente carica di vitalità, ma anche di tensione e infelicità.

 

Nei due o tre anni a venire solo occasionalmente ci incontrammo in Soho, in quel tempo stavo scrivendo The Outsider il mio primo libro e abitualmente ci si vedeva da Alex, un infimo locale a buon mercato, frequentato sia da ruffiani, ladri e prostitute che da artisti, scrittori e studenti. Ricordo che Martin una volta mi disse che riteneva la pittura un mezzo per la ricerca della verità interiore, una sorta di attuale alchimia. Se non che, per guadagnarsi il pane faceva schizzi nei bar, mentre io, che stavo scrivendo The Outsider e il mio primo racconto Ritual in the Dark, per risparmiare, dormivo in un sacco a pelo nei parchi di Londra.

 

Quando The Outsider uscì, e fu un imprevisto successo, Martin si era trasferito a Parigi, dove stava sperimentando un modo di far pittura un po’ simile all’action painting. Un tal genere gli si confaceva, essendo carico di tensioni inespresse e, quei primi quadri erano la diretta espressione di quell’infelicità che avevo intuito in lui e dell’esplosiva energia del suo inconscio. Sebbene quei dipinti non ottenessero il dovuto riconoscimento, furono però molto apprezzati nell’ambiente artistico (una delle tele di quel periodo è stata recentemente acquistata dalla Tate Gallery di Londra).

 

Era la metà degli anni ottanta quando sentii da Bill Hopkins che Martin stava avendo un certo successo in Parigi. Tuttavia, da quando vivo in Cornovaglia, nella profonda campagna inglese, non ci incontrammo una sola volta, nemmeno quando, occasionalmente veniva a Londra. Questo fino a tre anni fa quando mi telefonò dicendomi che il suo agente di Milano voleva fare un libro sulla sua vita e il suo lavoro e perciò mi chiedeva se lo volevo scrivere. Accettai immediatamente e qualche settimana più tardi, mia moglie ed io, raggiungemmo Martin nella sua casa di Bruges in Belgio, dove trascorsi tre giorni facendogli delle domande e ottenni che le risposte fossero dattiloscritte. Solo alla fine, con grande sorpresa, mi resi conto che aveva vissuto una vita straordinaria: più di qualsiasi altro pittore della sua generazione.

 

Nei lontani giorni in cui lo conobbi non parlò mai della sua infanzia. Tutto ciò che sapevo di lui è che aveva  fatto del vagabondaggio per mare. Solo ora scoprivo che era cresciuto in un ambiente alto borghese e frequentato un certo numero di scuole private. Sua madre morì che aveva pochi anni e il suo tutore lo aveva già destinato a qualche decoroso ruolo nella marina o in diplomazia. Ma il caso, aveva nove anni, lo stava indirizzando altrove.

 

È infatti all’età di nove anni che mettendo piede nella libreria della scuola e sfogliando l’Enciclopedia Britannica si imbatté in un saggio sulla lingua Cinese. Subito ebbe la strana sensazione che tutto quello che leggeva gli era familiare e in poche settimane imparò tutto ciò che c’era in quei volumi. Durante l’apprendimento, aveva la sorprendente certezza che non stesse imparando, ma semplicemente ricordando qualcosa del suo passato. Sin da quando ho scritto di casi di reincarnazione, sono incline a pensare che Martin potrebbe aver avuto memoria di qualcosa della sua precedente esistenza, sebbene io sia egualmente propenso a credere che in quei momenti si trovasse in sintonia con i simboli dell’inconscio collettivo di Jung. Qualche anno più tardi, a Londra, avrebbe nuovamente sperimentato lo stesso senso di “Appartenenza”.

 

Tutto questo significa che nel corso della prima adolescenza, quando la sua formazione era mirata a farne un membro della classe dirigente Britannica e viveva in una spaziosa residenza Vittoriana nella zona West di Londra, Martin provava un senso di totale alienazione e un violento desiderio di fuga. Questa è la ragione per cui a 14 anni lasciò al suo tutore un bigliettino in cui semplicemente lo informava che se ne andava via; pochi giorni dopo, sbucciando patate da mattina a sera navigava in direzione di Galvestone, Texas. Da questa località si diresse in Messico, fu arrestato come immigrato clandestino e in seguito si imbarcò su un altro mercantile in rotta per Amburgo. Nei due o tre anni seguenti continuò a navigare e nel corso di lunghe traversate cominciò a disegnare e dipingere, provando un grande senso di liberazione.

 

Quando di nuovo lo incontrai solo pochi anni più tardi, aveva lasciato il mare ed era diventato pittore in Londra. Negli anni ’50 si spostò a Parigi, poi ad Ibiza. Stanco dell’Europa si imbarcò per Rio de Janeiro dove pregustò un po’ di notorietà che ben presto sarebbe divenuto successo se fosse rimasto; ma un certo malessere interiore lo iniziò all’alcool. Ritornò quindi in Europa e si arruolò nella legione straniera spagnola. Tentò poi con successo la fuga attraverso il deserto, facendo ritorno a Londra per curarsi dall’alcolismo. Due anni più tardi otteneva ampi riconoscimenti in Roma, tuttavia decideva di obbedire alla sua intima deriva e di visitare l’Oriente. Scelse di andarci attraversando Turchia, Afghanistan ed India fino a Khatmandu. Là nel monastero di Brodanath fece il primo incontro col Buddhismo Tibetano e, una volta ancora, ebbe viva la sensazione di un ritorno al proprio passato. Poi si spostò a Penang, Kuala Lampur e Hong Kong, dove insegnò arte all’Università.

 

Convinto da uno dei suoi studenti, decide di visitare il Giappone. Si stabilisce nella campagna giapponese e, pienamente coinvolto nello stile di vita di quel paese, si dedica allo studio della lingua, del Buddismo e della storia dell’arte e disegna e dipinge adottando l’uso delle tecniche e dei materiali tradizionali del luogo. Motivato dalla vastità della cultura Giapponese, l’approfondisce visitando musei, gallerie d’arte, templi e giardini. I dipinti della scuola di Rinpa, le opere di Hakuin e Sengai e le ceramiche di Oribe lo impressionano profondamente. Tutto questo rafforza la già radicata intuizione che in ogni cosa ci sia vita.

 

Il suo mercante di Parigi, R. A. Augustinci aveva provveduto al suo mantenimento per tutto questo periodo e, quando i quadri di evidente influenza orientale che Martin gli spedì furono visti, ebbero un immediato successo, che si prolungò al suo ritorno in Francia e di conseguenza anche in Italia. Ciò nonostante la sua vita restava caotica come sempre. Nel 1978, incontra a Roma la pittrice Giapponese Tatsuko Hatano, nota anche come designer. Improvvisamente ogni problema trovò la sua soluzione. Sposando Tatsuko, Martin trovò quella serenità e sicurezza che aveva eluso per tutto il suo tempo.

 

Sebbene la sua reputazione artistica continuasse a crescere, la vera consacrazione fu però la mostra all’edizione del FIAC di Parigi del 1987. Martin ci lavorò per un intero anno e in tre giorni tutti i quadri esposti furono venduti e ne dovettero portare altri che altrettanto velocemente furono acquisiti. In conclusione; era arrivato. Da ogni parte gli venivano commissionati murales, quadri, illustrazioni di libri, persino T-shirt. L’Air France gli commissionò un poster pubblicitario e il Governo Francese, attraverso l’Imprimerie Nationale, divenne suo committente. La straordinaria qualità del suo recente lavoro, con la preponente vitalità che ne scaturisce, fecero un certo scalpore.

Recentemente ho provato lo stesso impatto visitando una sua mostra alla Redfern Gallery di Londra. I quadri sembravano splendere sulle pareti come fiori d’estate immersi nella luce del sole. non avevo più provato una tale emozione da quando mi trovai nella stanza dedicata a Van Gogh nella Galleria di Amsterdam.

 

Ora, sebbene fossero trascorsi 30 anni da quando scrissi The Outsider credo che Martin trovasse gli effetti del successo alquanto nefasti: le continue interruzioni, un certo senso di costrizione la mancanza di privacy. In passato gli piaceva incontrare gli amici nei caffè finito il lavoro; ora era lui ad essere cercato e spesso il lavoro non era neppure iniziato. Così si lasciava irretire dagli impegni mondani dovuti dalla notorietà. All’inizio fu un piacevole diversivo dopo anni di trascuratezza, ma poi cominciò seriamente a desiderare l’opportunità di una pausa che gli consentisse riposo e meditazione, condizioni necessarie ad un animo inquieto. Nel 1989 con Tatsuko si trasferì a Bruges, bella e tranquilla città delle Fiandre, dove  l’ho incontrato dopo tutti questi anni, ed ho ascoltato l’incredibile storia della sua vita.

 

In 40 anni Martin non è sostanzialmente cambiato. È pur vero che ora i suoi capelli sono d’argento e non ha proprio l’aria di chi segue una dieta e forse è proprio per questo che vi ho ritrovato lo stesso entusiasmo e l’inesauribile flusso di idee. Ho potuto solo percepire una significativa diversità: l’eloquio non era più alimentato da tensione e da infelicità; c’era invece un sottaciuto senso di dolcezza e benevolenza. Sentivo che dopo una vita di intensa ricerca, aveva trovato ciò che stava cercando.

 

Colin Wilson

 

 

 

 

RAQUEL MEDINA DE VARGAS

 

L’opera di Martin Bradley è tanto singolare quanto la sua biografia e conserva un vincolo molto profondo con quella cultura orientale della quale l’artista è un riconosciuto cultore.

Amante del sapere e poliglotta per vocazione, tanto da conoscere una dozzina di lingue, è stato un instancabile viaggiatore sin da quando, a soli 14 anni, a seguito di una sua fuga dall’istituto che lo ospitava, si imbarcò su una nave Panamense.

A prima vista, le opere di Bradley, se si vuol per la freschezza, la vivacità dei colori, l’aspetto accattivante dei suoi personaggi, appaiono piuttosto fantasiose e leggere; ma, a guardarle con maggiore attenzione, ci riveleranno grafismi, segni, simbologie e forme singolari difficili da comprendere, celando di fatto una critica filosofica sul genere umano e il suo tempo.

Nell’opera di Martin Bradley sembrano confluire i più svariati elementi della cultura universale, dall’arte orientale a quella occidentale, convergendo  in una esplosione di creatività, evidente, tangibile, nelle rappresentazioni rupestri, nell’arte medievale, in Hieronymus Bosch, nell’iconografia della cultura precolombiana, nell’eredità surrealista di un Mirò e di un Paul Klee….

Ideatore di ambienti impossibili, Bradley manipola ed inventa immagini che ricompone nel gioco infinito delle sue possibilità, asservite unicamente alla peculiarità della sua logica. Uccelli, insetti, conigli, tigri: un bestiario fantastico, di brillante resa coloristica (come alcuni motivi-simbolo ricorrenti), in cui i più strani ed ibridi esseri del mondo animale, vegetale e minerale si amalgamano con una grande moltitudine di oggetti, bio-morfologie, geometrie e frammentazioni.

Tecnicamente l’evidente preponderanza della grafica convive con una valorizzazione molto speciale della macchia, con zone di trasparenza delicata ed anche con energiche pennellate.

Un trasudante repertorio di ricorsi pittorici, a servizio dell’immaginazione privilegiata di un cantastorie, che configura un universo dotato di un profondo sentire filosofico, permeato di sottile ironia.

La pittura di Martin Bradley è quasi una mitologia personale, con una sua propria iconografia e simbologia; attualizzando quel surrealismo che è senza tempo, ci presenta una visione del mondo compromessa e fortemente contemporanea.

La sua vita e la sua arte procedono, inseparabili, sullo stesso binario, diventando una metafora del viaggio: il viaggio fisico (osserviamo nelle opere la frequente apparizione di navi, convogli, aerei), ma anche il viaggio dell’esistenza; il viaggio della mente, dell’esplorazione, della crescita spirituale, in un’esperienza alla quale si unisce un inno costante all’universalità, a un’umanità unita nella ricchezza della sua diversità.

È alla luce di queste considerazioni che possiamo affermare che il suo essere geneticamente un viaggiatore avventuroso e indomito, sempre alla ricerca della sua verità e della conoscenza, lo trasforma nel simbolo, esplicitato dalla sua arte, di qualcosa di tanto attuale come la globalità; non una globalità mercantilistica ma autentica di persone, di costumi, di cultura, di lingue, capaci di abbattere, annientare le barriere del tempo, dello spazio, delle frontiere.

 

Raquel Medina de Vargas

E-mail: info@martinbradley.it